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vita monastica / 5

vita monasticaIl monachesimo, se è autentico, deve essere al servizio dell’uomo, deve essere cioè capace di offrire ai suoi membri la possibilità di vivere non un culto semplicemente esteriore, ma una esperienza vera e profonda di Dio. Il cammino monastico diventa allora per colui che vi è chiamato, anche la piena realizzazione della sua umanità. In altre parole, la conversatio monastica, con le sue componenti tradizionali di solitudine, silenzio, obbedienza, verginità, umiltà, non va contro l’uomo ma lo costituisce a immagine di Cristo, lo rende cioè un uomo maturo. Queste però oggi non sono così facili da proporre né da accettare.

Una autentica esperienza monastica infatti non può che essere un’esperienza profondamente umana, cioè l’esperienza di un “umanesimo veramente integrale”. E’ l’esperienza della verità di se stessi vissuta di fronte a Dio e agli altri; una verità che a volte ci fa paura perché ci mette di fronte al giudizio e all’incomprensione altrui, ma che ci offre anche la possibilità di essere più autentici. E’ l’esperienza – per usare le parole di San Benedetto – di chi pur ritenendosi  “operaio cattivo e indegno”, si sente tuttavia ammesso per grazia alla presenza del Signore. E’ ancora l’esperienza che ci porta a costatare la nostra estrema debolezza e il nostro esser “nulla”, fino a crederlo nell’intimo del cuore; l’esperienza di chi, proprio nel suo essere stato “gettato a terra e confuso”, incontra veramente Dio (Cfr. Regola Benedettina 7). In questo incontro, nel quale Dio viene sperimentato anzitutto come Misericordia che salva e rialza dalla polvere, si compie, come in un parto doloroso, la nascita dell’uomo nuovo. Possiamo dire che in fondo si tratta di una esperienza vera di conversione che lascia poi trasparire i suoi effetti in una vita umanamente dilatata nella quale non c’è più nulla da nascondere o da difendere, e che perciò può irradiare la pace, la gioia, frutti di quello Spirito che è stato gustato. Forse in un passato non del tutto remoto, un certo “angelismo” di tendenza messaliana, con la sua visione un po’ disincarnata del monaco, segnata più di platonismo che di Vangelo, aveva portato a sottovalutare la sua dimensione corporea e persino a negare la sua affettività. Una eccessiva reazione a questa situazione ha portato, negli anni del dopo Concilio, a sottolineature parziali – e a volte violente – in senso opposto. In quegli anni infatti si cercava di recuperare, a volte disperatamente, una dimensione più profondamente “umana” anche della vita monastica. Così la psicologia abbattendo i bastioni secolari dei monasteri, penetrava – a volte in modo selvaggio e incontrollato – anche nelle nostre comunità, dove non raramente se ne faceva uso senza una adeguata competenza e preparazione. Certamente tutto questo va letto e compreso nel suo contesto. Penso però che sia necessario anche in questo campo ritrovare un giusto equilibrio. Anche oggi – non lo possiamo ignorare – la nostra lettura dell’uomo è inevitabilmente condizionata dal filtro della cultura in cui viviamo, ma questo non deve impedirci di percepire quelle strutture di maturazione che la nostra vita monastica può offrire, e che vanno riscoperte e valorizzate nel quotidiano. Questa attenzione all’uomo – che oggi è più che mai essenziale – non è estranea alla tradizione monastica, anzi mi sembra di poter dire che il movimento monastico, proprio grazie alla sua attenzione per l’uomo ha saputo rinnovarsi anche nei grandi momenti di crisi, dando vita a una nuova “cultura”, rispondente all’autentica sensibilità religiosa latente sotto le scorie delle deviazioni del tempo. Parlare dell’uomo diventa allora estremamente urgente se si pensa che una autentica crescita spirituale non può essere separata da una crescita umana. E quando viene meno questa sinergia, cioè quando crescita spirituale e crescita umana non vanno più insieme, l’una e l’altra diventano tristemente illusorie.

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