fbpx

vita monastica / 4

vita monasticaIl clima sociale e culturale in cui viviamo non è certamente dei più favorevoli alla vita monastica.

In un’epoca in cui anche il termine “Dio” è diventato equivoco per l’uomo del mondo secolarizzato ed è clamorosa la netta separazione fra il linguaggio religioso e il linguaggio della cultura contemporanea, non fa meraviglia che anche il linguaggio monastico tradizionale venga avvertito come estraneo rispetto al linguaggio della cultura corrente. La consapevolezza di questo fenomeno invita i monaci ad uno sforzo di riflessione e di mediazione perché il monachesimo possa ancora parlare all’uomo di oggi. Se da un lato avvertiamo che questo sforzo, esigente e faticoso, si rivela sempre più urgente, dall’altro non possiamo ignorare che creare un linguaggio nuovo comporta sempre una parte di rischio che fa paura. Questo timore-del resto giustificato da una certa reticenza che il monachesimo ha sempre avuto a cambiare e a trasformarsi, e che la storia documenta abbondantemente- è un invito alla prudenza e a rinnovarsi rimanendo saldamente ancorati alla Tradizione, (Yves Congar che ha ampiamente studiato il concetto di “Tradizione”, la definisce una trasmissione da persona a persona. Essa implica infatti un soggetto vivente. La Tradizione inoltre comporta l’idea di affidare qualcosa a qualcuno. E’ un tesoro, un deposito che un testo non esaurisce e che non può essere conservato se non da un soggetto vivente. E Paolo VI, nella lettera dell’11 ottobre 1976 a Mons. Lefebvre sosteneva la necessità di seguire la Chiesa dove lo Spirito la guida, perché: “La tradizione non è un dato fissato o morto, un fatto in qualche modo statico che bloccherebbe ad un certo momento della storia, la vita di questo organismo attivo che è la Chiesa, cioè il corpo mistico di Cristo” rif. La Documentation Catholique 1976 pag. 1058). Ma la necessaria prudenza non deve diventare un pretesto per soffocare le legittime esigenze di rinnovamento. La Tradizione infatti è un’esperienza vitale che non si identifica con un determinato arco di tempo in sé concluso. E se vuole rimanere viva non può evitare il rischio di “ri-dirsi” con un linguaggio nuovo, capace di raggiungere i cristiani del nostro tempo là dove realmente si trovano. Un rinnovamento di un linguaggio però non basta. Occorre infatti poter coinvolgere la vita in una dimensione di fede che-come direbbe von Balthasar- comporta l’incontro di tutto l’uomo con Dio. E Dio vuole l’uomo non solo con il suo intelletto, ma anche con la sua volontà e il suo corpo, (rif. H.U.VON BALTHASAR, Gloria, vol. I, Milano 1985 p.203). Alla chiamata di Dio, che esige la sequela, deve allora corrispondere la disponibilità totale dell’uomo che mette a disposizione tutta la propria esistenza come materia malleabile perché vi si imprima la sua immagine, (rif. Ibid, pag. 208). In questo contesto va collocato il tentativo di recuperare una coscienza ecclesiale sempre più matura, che concretamente significa ripensare il tipo di presenza delle comunità monastiche all’interno della chiesa locale. Se infatti da un lato si può costatare che da sempre i monasteri, pur sorgendo “extra civitatem”  fuori città, hanno avuto la pretesa di situarsi nel cuore stesso della Chiesa, dall’altra va però osservato che l’auto-comprensione della Chiesa è avvenuta in larga misura prescindendo dalla vita monastica. E questo rischia ancora oggi di fare del monachesimo un fenomeno marginale non solo rispetto alla città, ma anche rispetto alla Chiesa, (rif. L’interessante osservazione riportata nell’VIII intervento alla “tavola rotonda” della I giornata del convegno: “Un monastero alle porte della città”, in Un monastero alle porte della città. Atti del convegno per i 650 anni dell’Abbazia di Viboldone, Milano 1999, p.87-88). Ogni epoca ha avuto certamente coscienza che la Chiesa nella sua essenza è un mistero di fede, e quando nell’età dei Padri questa coscienza era viva, ed era viva la coscienza di appartenere a questo corpo, non c’era bisogno di tante formulazioni: semplicemente si era Chiesa. E l’immagine della “Sposa di Cristo”, letta alla luce di EF 5,3, coglieva in modo estremamente eloquente la realtà profonda del suo mistero come realtà nuziale, percepita nella sua origine dal costato trafitto del nuovo Adamo. L’intuizione fondamentale di questa immagine è che la Chiesa può concepirsi solo come l’amore che trabocca sul mondo da quel costato trafitto e non può fare altro che ritornare continuamente alla sua sorgente. In questo luogo fontale va concepita anche la comunità monastica come provocazione e come richiamo per tutta la Chiesa, che non può essere concepita separata dal suo Signore. Anche la formazione, all’interno delle comunità monastiche, va ripensata perché non può più essere ridotta a un semplice fatto personale: infatti, o è comunitaria o non è. E sarebbe illusorio delegarla al solo abate o al maestro dei novizi, perché il clima globale della comunità è determinante nel processo formativo. Qui vanno allora ripensate anche le forme della vita fraterna e chiedendosi con coraggio se siano ancora evangelicamente adeguate, perché soltanto una comunità viva, che sa attingere non solo alla sapienza dei Padri e al patrimonio dell’Ordine e della Chiesa, ma anche all’esperienza umana più vera, è in grado di elaborare e di trasmettere una autentica cultura monastica capace di rispondere alle esigenze dell’uomo di oggi (Qui cultura va intesa nel suo senso etimologico più ampio, cioè come lo sforzo dello spirito umano capace di capire il mondo, di trasformarlo, di interpretarlo. Per una precisazione del termine “cultura” rimandiamo all’articolo di P.MAYOL, Culte et culture en tension , in: “La Maison Dieu” 208 (1996) pp.48-50)

Il contesto odierno, caratterizzato da quel complesso fenomeno che chiamiamo “progresso”, con tutte le conseguenze che comporta (produttività, competitività, competenze lavorative, necessità di apparecchiature sempre più sofisticate per il lavoro, a cui si possono aggiungere telefono, fax, computer, ma anche la televisione per l’informazione), ci interroga anche sui valori della povertà e della semplicità che da sempre dovrebbero caratterizzare lo stile della vita monastica. Gli antichi monaci avevano colto la profonda unità che legava le scelte della solitudine, della povertà e del lavoro manuale alla ricerca insistente della quiete contemplativa. Anche l’allontanamento dalle città reso necessario dalla coltivazione dei campi, esprimeva in modo eloquente il loro proposito di prendere fisicamente le distanze dal mondo e da una mentalità che non potevano con-dividere. Oggi le cose sono cambiate ed è un dovere guardare al nostro mondo con sim-patia apprezzando tutto ciò che di buono e di bello la nostra cultura ha saputo elaborare, ma insieme occorre una buona dose di lucidità e un sano senso di discernimento per sapere come ne dobbiamo usare. “Tutto infatti è buono, ma non tutto è con-veniente”(rif. 1Cor 6,2) per la vita monastica. Legata al discorso sulla povertà è anche la riflessione sul rapporto responsabilità-Provvidenza. Oggi si insiste sempre di più sulla necessità di una responsabilità personale. L’uomo, diventato sempre più padrone della natura, si sente sempre più responsabile del suo sviluppo, della sua crescita e delle sue possibilità. Questa mentalità, che per certi aspetti è buona, comporta però dei risvolti, se non proprio negativi, almeno non molto chiari. Viene a volte ritenuto irresponsabile, o almeno ingenuo, l’atteggiamento di chi pretende di affidarsi alla Provvidenza. Forse inconsciamente la mentalità contemporanea, ci ha fatto cambiare anche i parametri con cui eravamo abituati a leggere la “Provvidenza”.

La caduta di tante forme esteriori ha reso più che mai eloquente anche il valore della semplicità ed ha permesso alla nostra vita di essere più trasparente, e meno distante da coloro che la divina provvidenza conduce al monastero per condividere da vicino qualcosa della nostra vita. Anche il ridimensionamento involontario delle nostre realtà comunitarie ci invita ad essere più umili, e a demolire certe immagini patinate e non vere di vita monastica, più adatte ad un illusorio consumismo estetico che ad un’autentica ricerca di Dio.

Anche questi cambiamenti spesso, involontari, come si diceva, che oggi toccano –a volte anche in modo doloroso- le nostre comunità, possono dunque diventare occasioni provvidenziali per un cammino di rinnovamento evangelico. Tutto ciò però richiede estrema vigilanza e capacità di discernimento. Bisogna infatti sapersi trasformare senza perdere di vista l’essenziale; saper rinunciare ai grandi gesti pur rimanendo saldamente ancorati a ciò che non cambia. (Si pensi ad esempio ai solenni apparati liturgici o alle dimensioni che l’aspetto economico e lavorativo avevano assunto in passato in alcune nostre comunità, quando il numero dei monaci era più elevato e la mano d’opera era a basso costo). E’ in queste decisioni che si gioca la nostra responsabilità e, direi, il nostro futuro, pur con la consapevolezza che le scelte attraverso le quali si attua la nostra risposta concreta, non potranno mai essere definitive, essendo anch’esse segnate da quella precarietà che caratterizza la nostra esistenza.

Condividi