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vita monastica / 3

Certamente oggi viviamo “giorni cattivi” (rif. Ef 5,15s: “Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; proffittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi”). Viviamo in tempi di crisi dei quali è difficile percepire il senso. E anche se oggi è diventato banale anche parlare di “crisi” (Già trent’anni fa, in una conferenza tenuta il 29 maggio 1969 all’Università di Saint-Louis, Missouri (USA), per il 150’ anniversario della fondazione intitolata: “La Chiesa nella crisi attuale”, il Padre De Lubac diceva: “Assistiamo oggi a una crisi di civiltà, ma questa osservazione, da qualche tempo è ormai diventata banale”), credo che non sia inutile insistere. Se da una parte infatti è facile notare una tendenza assai diffusa a sottolineare l’aspetto drammatico della situazione attuale, acutizzato dalle numerose incognite che affollano il destino della civiltà, fino ad alimentare un ambiguo “sentimento della fine”, dall’altra si può osservare l’atteggiamento subdolo di una nuova retorica che “vieta” di vedere la crisi e di riconoscerla (in una intervista rilasciata a G. Valente, il cardinale Christoph Schònborn, parlando della crisi della vita religiosa iniziata trent’anni fa, osservava: “Ci stiamo ancora dentro. E la difficoltà è resa più grave dalla retorica e dalle sue conseguenze, da quella retorica che vieta persino di vedere la crisi, di riconoscere che c’è una crisi. Non lo permetteva già negli anni 70 l’ideologia dominante, secondo cui tutto doveva essere descritto in termini di progresso, miglioramento. Adesso la crisi è coperta ancora di più dalla nuova retorica secondo cui le cose vanno meglio di allora, “in 30 Giorni, n.2, 1999, p 58). Il padre GHISLAIN LAFONT, nel suo libro: “Immaginare la Chiesa”, pensa che per comprendere la crisi attuale della Chiesa sia necessario metterla in stretta relazione con quell’altra crisi che alcuni autori hanno definito in modo tragico “la fine della modernità” – ed effettivamente è piuttosto diffusa la coscienza che ci troviamo a una svolta, alla fine di un’epoca. E la fine della modernità verrebbe a coincidere cronologicamente con un’altra e più vasta fine, quella di tutta la civiltà occidentale ( rif. G. Lafont, Immaginare la Chiesa cattolica. Linee e approfondimenti per un nuovo dire e un nuovo fare della comunità cristiana, Cisinello Balsamo 1998, p. 27-35).

Se infatti nei primi secoli la Chiesa era riuscita a stabilire un rapporto estremamente fecondo tra Vangelo e cultura, purtroppo, a partire dalla modernità con le sue folli rivendicazioni di autonomia, la Chiesa si è sempre più ripiegata su se stessa. “Di fronte all’invadenza della cultura laica, la Chiesa ha accettato di ritirarsi dalla società civile, costituendosi in mondo separato”(rif. G.Colombo, professione “teologo”, Milano 1996, p.17). Ma nella contrapposizione, inevitabilmente le differenze si sono accentuate e di conseguenza Chiesa e mondo si sono sempre più allontanati l’una dall’altro sino ad arrivare ad una frattura insanabile che ha provocato la crisi che stiamo vivendo. Di questa crisi – ancora secondo il Padre Lafont  - la fine della modernità e la fine del cristianesimo occidentale non sarebbero altro che le due facce. Come conseguenza tragica di questa separazione la Chiesa ha perso le proprie radici di umanità e non ha più trovato le adeguate modalità culturali in cui incarnarsi, mentre il mondo restava privo del suo senso ultimo (rif. Lafont, Immaginare la Chiesa Cattolica, p. 10).

Questo è in sintesi il contesto nel quale si inseriscono le nostre riflessioni: un quadro che si presenta certamente un po’ cupo, ma che non può essere ignorato perché è importante “essere consapevoli di quanto la cultura nella quale si vive e di cui si partecipa influisca sulla coscienza, sulle convinzioni, e sui comportamenti delle persone, e così sul loro rapporto con Dio” (rif. C.RUINI, Per un progetto culturale orientato in senso cristiano, Piemme Casale Monferrato 1996, p.9). Se dunque è necessario affrontare questa realtà con un sano realismo, è necessario però necessaria insieme una buona dose di speranza che – come diceva MOUNIER – va collocata “nel cuore stesso del presente”, perché solo questo realismo e questa speranza ci permettono di vivere la fedeltà al presente e insieme di intuire e amare un futuro che ne sarà il superamento. Uno sguardo sereno ci permette di cogliere ciò che ha segnato positivamente il cammino del monachesimo italiano lungo gli anni no facili del post-concilio. Forse le nostre comunità hanno potuto acquisire un certo equilibrio fra la struttura, indispensabile per garantire la vita comune e la concretizzazione dei valori monastici, e la libertà personale che stimola la responsabilità, l’iniziativa e la realizzazione umana di ciascuno. Tale libertà è certamente una garanzia di crescita personale, ma insieme è anche un rischio, perché l’individualismo è sempre in agguato per corrodere le radici della vita comunitaria. Forse possiamo dire che oggi c’è una maggior chiarezza circa i valori di fondo della nostra vita, ma una conoscenza intellettuale più acuta e sufficiente se non arriva ad assimilarli, fino ad assumerli liberamente e in modo responsabile. In questo senso si può dire che la libertà, che una comunità sana è in grado di offrire ai suoi membri, richiede come contropartita una responsabilità sempre maggiore. Forse si può aggiungere ancora che, se le nostre comunità hanno recuperato un certo stile di vita più evangelico, improntato a rapporti più semplici e formali, va tuttavia lucidamente riconosciuta l’estrema fragilità di una realtà di comunione che non può essere mai pienamente conquistata, ma che va continuamente costruita nella fatica di una conversione quotidiana.

Se dunque si può dire oggettivamente che un certo cammino è stato fatto, resta ancora da fare per molte comunità quel vero salto di qualità che consiste nell’acquisizione di una più precisa identità monastica, alla quale si può giungere solo attraverso una riflessione seria e scelte comunitarie precise e motivate, verso le quali ci spingono le sfide di un presente che inesorabilmente avanza verso l’ignoto.

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