Se dunque l’incontro con la “cultura” è così essenziale anche per la vita monastica, non si può fare a meno di osservare che il monachesimo italiano in alcuni momenti nodali del suo percorso non è stato in grado di incontrare la cultura del suo tempo come possibile momento critico di grazia e rinnovamento. Tra questi momenti nodali vorrei soffermarmi su quello che è stato all’origine di un processo di esaurimento progressivo di energia di cui spesso soffriamo ancora oggi: il sorgere dell’UMANESIMO con la ricchezza dei suoi valori culturali e spirituali.
Non si può sottovalutare l’importanza storica e culturale del Trecento, né ignorare che l’età di Dante e di Filippo il Bello è anche l’epoca in cui il papato si trasferisce ad Avignone. E mentre l’uomo si accinge all’avventurosa scoperta di un mondo nuovo si apre un ulteriore capitolo della storia occidentale.
Purtroppo l’Umanesimo non è stato immediatamente al centro degli interessi degli uomini di Chiesa, preoccupati invece di difendere un certo tipo di istituzione (rif. G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa, Cinisello Balsamo 1997, p.183). Così mentre i dotti umanisti incominciavano a far ri-vivere il sapere degli antichi e gli uomini di Stato a cercare un nuovo sistema politico, il monachesimo italiano, che già dalla fine del XII secolo aveva accusato una certa stanchezza, con quelle poche forze di cui ancora disponeva continuava a restare immerso nell’atmosfera religiosa di un passato che a fatica cercava di sopravvivere entro il nuovo contesto storico e culturale. E se il numero di monasteri ce in quest’epoca ricoprivano la penisola poteva essere ancora rilevante, in realtà le comunità erano composte da pochi monaci, custodi di un patrimonio che testimoniava la grandezza del passato, ma incapaci di incontrare i valori culturali e spirituali del loro tempo. Per questo il 300, con le forti tensioni che lo attraversano e i profondi mutamenti che segnano la vita della società e della Chiesa, viene considerato dagli storici come il “secolo della grande crisi”. (“Il Monachesimo italiano nel secolo della grande crisi” era il titolo emblematico del V Convegno di Studi Storici sull’Italia benedettina, organizzato dal Centro Sorico Benedettino e svoltosi nell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore dal 2 al 5 settembre 1998, al fine di far luce su questo periodo (il Trecento) particolarmente travagliato per il monachesimo tradizionale).
L’antica struttura monastica, che nei secoli XIII E XIV non aveva saputo incontrare la cultura del suo tempo, non era stata neppure in grano di offrire una risposta adeguata alle nuove ESIGENZE SPIRITUALI. Saranno invece gli Ordini Mendicanti, Francescani, e Domenicani, che assumeranno ormai un ruolo decisivo nella nuova società, relegando inevitabilmente le vecchie strutture monastiche in un ambiente sempre più marginale della vita della Chiesa. Nonostante ciò il Monachesimo da ancora segni di vita e il Trecento vede sorgere nuove Congregazioni Monastiche – Silvestrini, Celestini e Olivetani – le cui strutture tuttavia si distanziano ormai da quelle tradizionali per avvicinarsi sempre più a quelle dei nuovi Ordini Religiosi. Viene così abbandonata l’autonomia prevista dalla Regola Benedettina per costruire quelle speciali unioni fra monasteri e monaci che sono appunto le Congregazioni, al fine di evitare l’isolamento dei monasteri; viene inoltre ridotta la durata dell’abbaziato ed eliminata la stabilità.
Questi primi cedimenti della vita monastica diventano presagio di una decadenza che, nonostante i vari tentativi di riforma, si andrà sempre più accentuando nei secoli successivi. Isolato fin dall’inizio del 1500 a motivo dei grandi eventi politici che hanno segnato l’Europa, nostro monachesimo continua a ridurre il suo campo d’azione, fino a diventare un fenomeno sempre più tipicamente italiano. Timoroso di venire a con-tatto con altri Paesi e altri ambienti, le cui condizioni si differenziano sempre più dalle nostre, esaurisce la propria vitalità e punta soprattutto a conservare posizioni e privilegi raggiunti in passato, sempre più minacciati dai tempi nuovi.
La legge generale di soppressione delle istituzioni religiose, emanata il 29 maggio 1855 nel Regno di Sardegna dietro iniziativa del ministro degli affari ecclesiastici Rattazzi e del ministro della pubblica finanza Cavour, mentre usava una certa tolleranza verso gli Istituti Religiosi di vita attiva, contava fra le sue principali vittime proprio gli Ordini Monastici. Numerose case venivano chiuse e le comunità private non solo dei loro beni, ma anche della personalità giuridica. Questa dolorosa situazione durò solo pochi decenni, tanto che alla fine del secolo si potevano già notare i primi segni di ripresa. Le Congregazioni facevano tutto il possibile per recuperare le antiche abbazie. Le riacquisizioni si susseguivano ininterrottamente, però le condizioni in cui i monaci venivano a trovarsi erano ormai molto diverse da quelle in cui i rispettivi monasteri erano sorti. In alcuni casi i monaci esercitavano semplicemente la funzione di custodi degli antichi complessi monumentali, in altre situazioni avevano cercato di adattarsi alla nuova situazione aprendo scuole e collegi, mentre nei monasteri più piccoli conducevano una vita ancor più precaria quando non erano stati costretti a rinunciare ad ogni forma di vita comune. Inoltre la riapertura delle antiche abbazie aveva comportato l’acquisizione delle parrocchie ormai incorporate ai monasteri, ed ebbe come conseguenza una intensa applicazione all’attività pastorale, tanto che “nella mentalità ormai comune i monaci non si distinguevano gran che dai frati e dagli altri religiosi”, La rinascita della seconda metà dell’800 andava così creando quel nuovo modello di vita monastica giunto fino ai nostri giorni.
Oggi si percepisce con chiarezza che i decenni che hanno segnato la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro secolo – seppure vissuti eroicamente dai monaci di quel tempo – hanno avuto un carattere eccezionale. Tuttavia, sebbene tutti siano in grado di riconoscere questo dato di fatto – e lo dimostrano gli atti de Convegni storici – si può dire che non è altrettanto chiara la disponibilità a mettere in discussione certi modi di vivere e certi SCHEMI DEL PASSATO che continuano a permanere e a determinare uno “STILE” – se così si può ancora chiamare – di vita monastica.
Attualmente esistono in Italia 60 monasteri maschili e 120 femminili, per un totale di circa 3000 monaci e monache. Questi numeri bastano per aiutarci a percepire la realtà di un eccessivo frazionamento che comporta inevitabilmente una notevole dispersione di forze e una seria difficoltà per l’impianto di comunità robuste, vitali e formative. Le comunità sono troppe e spesso troppo piccole e gelosamente autonome per poter permettere di fare un cammino insieme.
Come dunque arrivare, pur nel rispetto delle diversità, alla coscienza di una responsabilità comune del monachesimo in Italia di fronte alle sfide della modernità? Credo che il primo passo dovrebbe consistere nel prendere coscienza della realtà contraddittoria che caratterizza il monachesimo della nostra penisola e che rende difficile una fruttuosa collaborazione. Il rispetto per l’autonomia, che è certamente essenziale, non può infatti arrivare fino ad ostacolare una doverosa lettura critica della situazione attuale, a partire dalle radici lontane di un’impasse che non si può certo attribuire alla riforma del Vaticano II. E’ quanto ho cercato di fare in queste pagine semplicemente richiamando alcuni dati. Senza pretese di esaustività, essi vogliono rappresentare una provocazione a una riflessione più approfondita, ma anche un invito a guardare con coraggio al presente e al futuro del nostro monachesimo perché non ci accada ancora una volta di rimanere semplicemente spettatori di un trapasso epocale che inevitabilmente coinvolge il mondo e la Chiesa. E’ una occasione da non perdere perché se la “rottura tra Vangelo e cultura” – come abbiamo visto – è il dramma anche della nostra epoca, (rif. PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi, 19-20) anche il monachesimo può avere una sua parte nel superamento di questa frattura. E il primo passo non che consistere nella consapevolezza dell’ambiente culturale nel quale siamo chiamati a vivere, senza demonizzarlo come se si trattasse di un intreccio di tristi fatalità che bisogna cercare di evitare. Solo uno sguardo di fede, infatti, ci permetterà di cogliere in esso quelle chances storiche che ancora ci vengono offerte.