La discussione sul Concilio Vaticano Secondo si fa sempre più forte e - direi - necessaria.
Sia Magister nel suo blog, come anche un interessante recensione di enrico del blog messainlatino, ma poi la pubblicazione ieri della Universae Ecclesiae, dal titolo significativamente eloquente, solo alcune delle spie di un dibattito che sempre più investe l'opinione pubblica della Chiesa
e allora... provo a dire la mia...
Ponendo dei punti fermi, anzitutto
1. la Tradizione è un concetto teologico molto ampio e complesso; una realtà dinamica che investe la Chiesa dal suo nascere, dalla Croce di Gesù Cristo quando Egli "consegnò" lo Spirito (Gv 19,30: il verbo è proprio quello "tecnico" della paradosis, tradizione)... Cristo crocifisso consegna lo Spirito e la Chiesa custodisce questo suo Spirito e lo dona continuamente fino alla fine dei tempi...
2. se volessimo "definire" la Tradizione essa è il processo per cui la Chiesa, Corpo di Cristo e insieme sua Sposa, trasmette il depositum Fidei, e donandolo, di generazione in generazione, da cultura a cultura, lo comprende con sempre maggiore chiarezza e intelligenza...
3. in tal senso non ha alcun significato contrapporre un Concilio con quello che lo precede o ciò che lo segue: un Concilio è parte significativa di questo processo dinamico per cui la Chiesa sempre più chiaramente esprime e dice la sua fede... solo in un'indagine storica si può cercare di ricostruire i filoni che hanno generato questo o quel processo, un prima, un dopo, le cause, gli effetti, ma a livello teologico l'ermeneutica necessaria è quella indicata dal celeberrimo discorso del Papa sulla discontinuità/riforma
4. un ultimo punto fermo lo prendo proprio da quel discorso: Benedetto XVI non oppone alla discontinuità una semplice continuità, ma il termine - ricco di suggestioni storiche e teologiche - di riforma e - penso - non a caso!
La lettura che ha fatto del Concilio la scuola di Bologna è ancora l'unica davvero organica, completa e, sicuramente, imprescindibile. E mette in evidenza alcuni dati storici inoppugnabili ed essenziali. Possiamo dire: non sono gli unici! Possiamo dire: non bastano a costruire una "teologia" del Concilio Vaticano Secondo! Ma quei dati sono veri e necessari. Attendiamo altre letture che possano mettere in luce altri aspetti e, quindi, offrire anche altre visioni e considerazioni teologiche. In questo sia Marchetto, che De Mattei non mi pare che siano ciò che possiamo attenderci. Sono però molto d'accordo con Enrico sul valore che possono avere queste "critiche": scardinare quello che sembra un dogma, una visione che non si può superare o contraddire... e nella ricerca della verità questo è, spesso, un bene, una cosa importante... ogni dogmatismo è sempre un male anche se la cosa affermata è in sé buona...
Forse quello che manca è una vera e propria lettura teologica del Concilio Vaticano Secondo; una lettura, cioé, che considerando anche i dati storici, metta in evidenza il ruolo di questo "evento" (possiamo usare questo termine senza essere tacciati di essere "modernisti"?) della Chiesa del XX secolo nel cammino della tradizione ecclesiale. E in tal senso il dibattito che si sta instaurando mi pare che offra qualche elemento in tale direzione che andrebbe considerato.
solo intraprendendo questa esegesi globale dei testi del Concilio si può davvero comprenderne la portata teologica e l'importanza per la Chiesa di oggi e forse contribuire a sanare le contrapposizioni all'interno della Chiesa
Posti questi punti fermi, pur vedendo con interesse la critica alla visione storiografica della scuola di Bologna (che, giova ricordare, è una lettura storiografica, appunto e non teologica... il problema non è la scuola di Bologna, ma chi da lì parte per derivarne tout court una lettura teologica dell'insegnamento conciliare), tuttavia tale critica non mi pare di grande "qualità". Sia Marchetto che De Mattei sono troppo "contro" per poter davvero offrire una vera alternativa possibile. Mi piace di più considerare alcuni teologi un po' nascosti come Leo Scheffczyk, ad esempio...
Dice giustamente Enrico che la replica di Introvigne pecca di un eccessivo peso posto sul "Magistero". E sono d'accordo. La Tradizione non è il Magistero, ma è una componente di quell'insieme di componenti che "fanno" la Rivelazione e la DV, al n. 10, ne indica tre: la Bibbia, la Tradizione e il Magistero, appunto. Ed è vero che uno delle pecche contro cui il provvidenziale pontificato di Benedetto XVI si muove è quello di una assolutizzazione del magistero (più precisamente dell'autorità gerarchica). Se non si comprende questo l'insegnamento e il governo del Papa non si comprendono a fondo. Il Magistero è a servizio della Parola e della Tradizione e non le sostituisce. La gerarchia ecclesiale è a servizio di Dio e della Chiesa. O, per dirla in termini "benedittiani" (aaarrrrrggghhhh che brutto neologismo!), la Verità è la realtà ultima da ricercare. Perciò il Papa può contrastare anche la maggioranza dei Vescovi, può non essere succube dello "scisma" tradizionalista e può con autorità e autorevolezza affermare qualcosa: perché si pone a servizio della Verità. Solo a questa condizione il Magistero (la gerarchia) è autentico e offre un servizio alla Chiesa. Sotto questa luce, forse, può essere anche riletto tutto l'atteggiamento di Benedetto XVI verso la pedofilia del clero: proprio nell'ottica di un "ridimensionare" il ruolo, a volte eccessivo e segnato dalla volontà di dominio e non di servizio, della gerarchia ecclesiale nei suoi diversi livelli.
Interessante è anche la critica a Rhonheimer, che Enrico accusa di dissolvere, di fatto, la visione di Chiesa in un indistinto già detto. E forse è vero perché mette in evidenza che se non è accettabile una semplicistica traduzione teologica del dato storico messo in evidenza dalla Scuola Bolognese (il Concilio Vaticano Secondo è stato un evento), come se la fede della Chiesa possa distinguersi in un prima e dopo del Concilio; d'altro lato non si può far finta che questo Concilio, siccome fu "pastorale", sia stato ininfluente nella tradizione ecclesiale e nella comprensione della fede. La strada per la comprensione del Concilio Vaticano Secondo, come ha autorevolmente insegnato Benedetto XVI è quella che passa per l'ermeneutica della riforma. Un concetto chiave, mi pare. Non assimilabile né alle ermeneutiche della rottura (progressista o tradizionalista), né a quella della semplice continuità. Diciamo con uno slogan: qualcosa è successo. Nulla di sostanziale è mutato nella fede della Chiesa così come nulla mutò con Trento o col Lateranense IV, ma qualcosa è successo. Una sconfessione? Una rivoluzione abortita? Mi pare né l'uno, né l'altro. Piuttosto un cammino di "compimento", una voce dello Spirito da comprendere e da approfondire per poterla vivere. Come disse il Beato Giovanni Paolo Secondo: il Concilio è stata "la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX" (Novo Millennio Ineunte, n.57)
In questo senso mi pare che una parola, spesso usata ai tempi del Concilio, e poi abbandonata possa esprimere l'intento espresso dal Papa: aggiornamento. Io aggiorno un programma, un applet non perché voglio sconvolgerla, non perché ne carico un'altra, ma perché voglio "migliorarla", renderla più prestante... fa sempre la stessa cosa, ma meglio. Sia il Beato Giovanni XXIII che il servo di Dio Paolo VI hanno inteso questo termine con due accezioni unite: fedeltà al depositum Fidei e sua riproposizione nelle rinnovate situazioni storiche. In questo dinamismo di "tradizione" il Concilio è stato pensato e vissuto dai pontefici. Stranamente il termine "aggiornamento" non compare più nel linguaggio ecclesiale dopo le prime sessioni. Ai padri del Coetus internationalis sembrava troppo pericoloso; alla "maggioranza" rinnovatrice pareva troppo tiepido. Io lo rispolvererei per poter avere una chiave di lettura teologica dei documenti conciliari, che superi la tradizionale (e anche qui forse diventata un po' dogmatica) opera di Acerbi sulle due ecclesiologie del Concilio. Brevemente per chi non conosce la tesi essa - semplificata al massimo - dice che nei testi del Concilio Vaticano Secondo si trovano due visioni di Chiesa, due "teologie" contrapposte e contrarie che non si sono amalgamate tra di loro. L'opera è del 1975 e ha guidato di fatto tutta l'esegesi più comune dei testi conciliari fino ad oggi... potremmo vederla come una sorta di corrispettivo del metodo storico critico applicato ai testi conciliari... la mia tesi è: e se non fosse proprio così? se invece leggessimo i testi non soltanto nel loro "farsi", ma nel loro essere consegnati alla tradizione ecclesiale? perché invece di studiare come i testi si sono prodotti o che cosa avrebbero potuto dire non si leggono all'interno della fede della Chiesa? qui l'idea di aggiornamento trova la sua importanza... sono testi che non vogliono offrire definizioni dogmatiche, ma vogliono rinnovare il linguaggio ecclesiale... e, chiaramente, con questo anche donare alla Chiesa, con l'autorità propria di un Concilio Ecumenico, alcune precisazioni teologiche, a volte anche delle vere e proprie esplicitazioni... "aggiornare" la fede per renderla capace di essere trasmessa in condizione storiche totalmente rinnovate: ecco la chiave di lettura propria dei testi conciliari, la "pastoralità" che essi intendono avere (si veda, ad esempio, un testo chiave pochissimo citato: la prima nota della Gaudium et Spes)...
questa lettura è ancora tutta da fare... sia il continuo richiamo del Beato Giovanni Paolo II, che l'insegnamento di Benedetto XVI, mi pare che offrano non pochi motivi per dirigersi verso questa opera necessaria e preziosa per l'annuncio della fede e per la sua tradizione